girolamo balistreri

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Nato nel 1943 ad Aspra, frazione marinara di Bagheria, Girolamo Balistreri, ancora adolescente, sceglie il linguaggio dei segni e dei colori come strumento di espressione e di comunicazione. Ultimo di dodici figli, la sua sensibilità viene  stimolata forse dal vivace clima familiare e da un contesto sociale ricco di forti sentimenti e di profonde contraddizioni, ma anche dal mare a pochi decine di metri dalla sua casa. Un mare dagli straordinari e continui cambiamenti, ma pur sempre presente, come un respiro. Un orizzonte che, come una sorta di misteriosa attrazione, punto di partenza e di ritorno, richiamo di spazi lontani, di antiche memorie e di imprevedibili futuri, riaffiora in tutta la sua complessiva esperienza pittorica.  A tredici anni  intraprende gli studi artistici a Palermo.
 I suoi primi dipinti “1955-1960”, sono oli e tempere realizzate su pezzi di compensato o faesite dove sono rappresentate figure caratterizzate da un naturalismo fortemente espressionistico, quasi un’ossessiva esternazione di una sofferenza che assume i toni del dolore e della rabbia.
 A diciotto anni si diploma Maestro d’arte alla Scuola Statale d’Arte di Palermo e poco più tardi, il bisogno di conoscere, di conoscersi e di confrontarsi lo spinge a lasciare la propria terra per la Germania, dove scopre una diversa solitudine, una sorta di malinconica serenità che gli permette di vedere e di vedersi con maggiore  obiettività. Qui realizza una serie di  paesaggi  invernali
invernali  intessuti di alberi  spogli  intricati  in  cieli  scoloriti  da una
nebbia stagnante e pervasi da una malinconia si direbbe compiaciuta. Espone queste opere nella sua prima personale nel 1963 al “Circolo di Cultura“ a Bagheria.
Il ritorno e la sua permanenza a Palermo fa esplodere in lui una sorta di rancore e di rabbia nei confronti di una forma di potere arrogante e senza scrupoli e realizza una serie di “opere-denuncia” dai forti contrasti cromatici, quasi in bianco e nero, con incollaggi di inserti di carta stampata e reperti fotografici, dove la vivacità quasi cinematografica dell’effetto racconta il delitto di mafia, la guerra e il terrore; opere che espone con il titolo “ Nero su Bianco “ nel 1966 alla galleria d’Arte “El Arka“ di Palermo. Scriverà in merito Franco Grasso…”Nessuna illustrazione migliore di questi quadri per un libro che narri le gesta della mafia o gli orrori della guerra, nessun commento più eloquente di queste immagini a un racconto che metta evidenza i tristi effetti della violenza, della miseria, della superstizione, dell’ignoranza”.
Negli anni successivi soggiorna per lunghi periodi a Parigi, da dove si reca spesso in Spagna e in altri paesi d’Europa. La ricerca di nuovi confronti culturali, trasforma quella sua posizione di realista estroverso e la sua pittura appare ora decantata da ogni ipotetico impegno sociale, quasi una metamorfosi.
Intorno agli anni settanta Balistreri intensifica i suoi viaggi e si reca in nuovi paesi,  come la Tunisia, l’Algeria e il Marocco, spinto da un incessante desiderio di scoperta di nuovi paesaggi e di nuove situazioni sociali e umane. Nel 1971, la Provincia di Palermo gli patrocina una mostra di cento dipinti nel settecentesco  Palazzo Inguaggiato di Bagheria. In quella occasione, Renato Guttuso scrive in catalogo… “ è sorprendente vedere una produzione così vasta e così coerente in un giovane di 27 anni. Mi impressiona particolarmente la tua preparazione tecnica e la tensione che emana da ogni tuo dipinto.”  
Nel 1972 ritorna a Palermo  e riscopre, nei luoghi della sua infanzia, quei valori e quegli affetti che erano stati un tempo motivi di rancore e di risentimento, qui propone una mostra alla galleria d’Arte “Sicilia 72“ e commenta Albano Rossi nella presentazione in catalogo…”egli è andato avanti penetrando più a fondo le ragioni della sua pittura, conferendo ad essa una più esatta e acuta giustificazione interiore scandagliando con trepidezza anche dolorosa nei recessi più ascosi di “quel paesaggio dell’anima” che è poi il riflesso viscerale dei paesaggi della natura”.
Negli anni ottanta Balistreri riparte dai luoghi d’origine, visti non più come elementi di drammatica memoria, ma come geometrie che si dissolvono nello spazio luce ed assumono tutta la leggerezza e il disincanto della liricità...”Dalle precedenti esperienze Balistreri trascorre a una visione che reinventa i dati realistici in immagini più introflesse e mentali, in “paesaggi” interiori, sul versante dell’astrattismo storico…”è una impaginazione di trasparenze, di colori puri, di strane e tenue evanescenze, di gradazioni di toni lievi sino alla vibrazione del bianco”. (Giuseppe La Monica, L’ORA 1979)                                                            
Nel 1983, nella presentazione in catalogo di una sua mostra alla galleria “Arte al Borgo” di Palermo, lo stesso La Monica scriverà…”la struttura del mondo (esterno e interiore) è come se fosse stata sconvolta da una bufera marina o da un sole rovente e, dopo lo scontro di tempesta, o di incendio, sembra che nella superficie del mondo, che coincide, paradossalmente, con i fondali della psiche, galleggino reperti in bilico fra morte e rinascita, cellule in movimento multiplo”.  
Nel 1984 approda a Milano dove allestisce una mostra alla galleria d’Arte  Vinciana…”le nuove immagini, (dirà Luciano Caramel nella presentazione in catalogo) grazie anche a un maturo affinarsi di tecniche non sono ormai altro che luce, peraltro, tuttora innervate nel fenomeno”…”lo spazio diviene sempre più “ campo” di eventi formali, che concretano – senza rimandi o sovrasensi simbolici – una concezione della vita e del mondo in cui non v’è posto per schematici assoluti, per determinazioni aprioristiche”.
Fra il 1985 e il1987 Balistreri prende coscienza che la sua ricerca pittorica si è spinta fino all’estrema conseguenza, ad una assoluta leggerezza e rarefazione, quasi un azzeramento, una presenza assenza, un tutto che può essere un nulla. Una sorta di inconscio desiderio di rinascita o di annullamento. E come un Icaro che avesse perso le ali per avere sfidato la luce, egli ritorna alla  pittura nel senso più concreto del termine, con impeto quasi violento. Nascono così, in questo periodo, tele grandi fino a sei metri. Spazi grandi per un fare grande. Dipingere con le mani, con le pezze, passare i colori dai tubetti direttamente sulla tela senza mediazioni, così che la tela stessa diventa tavolozza. Il risultato finale è quello di totale sconvolgimento: quello che potrebbe sembrare l’inizio o la fine del mondo. Tutto è avvolto e stravolto da un incessante vorticismo dove si fondono terra, acqua, fuoco e vento, e dove, comunque, riemerge una forma geometrica, come la punta di una piramide che si proietta altrove dalla terra, come la punta di una nave che emerge dal turbinio di un mare in tempesta, una “ salvezza”.
Nel 1987 una mostra organizzata dall’Assessorato ai Beni Culturali di Bagheria propone questo nuovo ciclo di opere nella settecentesca Villa Palagonia, curata da Francesco Gallo, il quale, nella presentazione in catalogo conclude…” Balistreri costruisce da se un universo di improbabilità simboliche, di frammenti del grande mondo che gli urge dentro, che si fa sentire da lui nel momento in cui il fantasma della mente comincia a uscire dalla potenza per tramutarsi in cosa. Una cosa terribilmente presente, ossessiva, ricca di colori, invadente, come può esserlo una creatura che è figlia di un disperato bisogno di affermazione, di una misteriosa tensione, inesorabile, come un’alta marea, come la morte, come la gloria.”
Dopo il 1987 Balistreri rianalizza con maggiore obiettività e con spirito critico più maturo le sue esperienze; reinveste nuovi strumenti e nuovi materiali, rinuncia alla tradizionale tela e sceglie reti trasparenti dove tesse l’evento pittorico con vari materiali riciclati, già trasformati, per trasformarli in nuove esibizioni. Una sorta di danza della materia che appare ora come colta da un flash nell’attimo di una sua evoluzione, leggera, trasparente, attraversabile all’occhio.
Nel 1991 l’Assessorato ai Beni Culturali della Provincia di Palermo gli organizza una mostra che lo stesso Balistreri intitola “Silenzi”. Per l’occasione egli sceglie, anche provocatoriamente, come spazio espositivo uno straordinario interno (una trizzana) situato nella marina di Porticello, scavato nel tufo dagli arabi intorno all’800, utilizzato per secoli come rimessa della tonnara e in seguito abbandonato e ridotto a rudere, a serbatoio di rifiuti. Ne esegue personalmente le operazioni di recupero con l’aiuto di amici volontari e ne cura personalmente l’allestimento. Si tratta di opere collocate nello spazio, che pendono in trasparenza dal soffitto, con luci che installa sotto il suolo di terra, e completa l’allestimento con suoni che aderiscono alla leggerezza delle opere stesse e alla solennità di quel luogo intriso di memoria, così da fare diventare la mostra stessa “opera d’Arte”.
Scrive per l’occasione Francesco Gallo…”Balistreri, agitato da una psicologia inquieta e debordante, ha orientato la sua fantasia costruttiva verso un contesto di povera sembianza, di arte povera in senso proprio, aderente a questo suo momento graffiato, virtuale più che reale. Come un paesaggio che ha perso la bussola e i contorni, continuando ad esistere sotto forma di materia convulsa, elementare, appena capace di formare uno schema, oltre il supporto, realizzando un’economia forzata dei colori che si tramuta in capacità di suggestione, “…” Balistreri, dal centro della sua solitudine, arrovellato dal proprio fulcro creativo, ricco di una letteratura personale, concreta questi suoi “Silenzi” come una sinfonia stonata, irritante, antigraziosa, in ciò abbastanza figlia del nostro tempo, partecipante ad un convivio
che ha voltato le spalle alla figurazione, per avventurarsi in territori irredenti di “fattura”.
 Nel suo percorso artistico questi anni segnano un momento di significativa evoluzione: egli si spoglia sempre più di ogni schema preordinato e comincia a pensare all’arte non più come mezzo di rappresentazione ma come laboratorio di sperimentazione, quindi di scoperta, di sorpresa, di meraviglia. Combattuto fra il bisogno irrinunciabile del fare arte, la riluttanza (ormai assodata) delle leggi di mercato, Balistreri, nel suo voluto isolamento, e nella sua ricerca di spazi alternativi ritrova una sua autenticità, una sua stabilità. L’arte diventa gioco, un gioco che egli vive ed elabora soprattutto per se stesso, e in cui qualsiasi elemento può contribuire alla realizzazione dell’opera d’arte. Egli approfondisce sempre più la sua ricerca sulla materia e su tutte le soluzioni che essa gli può suggerire: la sua esperienza artistica si estende così ai confini della scultura e dell’installazione.
 Nel 1997, in occasione della sua proposta artistica “Scogli“, finanziata dall’Assessorato ai Beni Culturali di Bagheria, Balistreri sceglie provocatoriamente un lembo di scoglio del mare di Aspra sopravvissuto alle varie degenerazioni ambientali ed egli stesso sottolinea in catalogo: …“installare le mie opere su questo pezzo di terra-mare e realizzarvi una performance di suoni, canti, fuochi e danze è l’intento di ricreare uno spazio primordiale per evocare le nostre origini.” …”Legni e vecchie travi in disuso, sottratti all’ultima metamorfosi; scavati, graffiati, segnati da inesplicabili vissuti, come relitti riemersi da mondi lontani; rinati a nuove forme, a nuovi significati, a nuovi destini.” …”Eventi di vele trasparenti, indefinite: materiali leggeri e impalpabili dove le impronte di segni e colori sgranati da sottili vibrazioni, si stendono, si sovrappongono, si intrecciano e suggeriscono immagini probabili, appena sussurrate, dilatate oltre lo spazio contenibile, attraversate dall’aria e dalla luce.”
 Nel Giugno 1998, Balistreri recupera uno spazio nel suo laboratorio dove allestisce una mostra dal titolo “Il canto delle sirene“ e con un comunicato stampa invita gli artisti del territorio ad aprire il loro studio al pubblico e farne luogo di incontro e di confronto. Nell’occasione egli scrive… “l’artista, è un Ulisse, instancabile viaggiatore, che con la sua nave consumata e annerita dall’esperienza, naviga per spazi magici, attratto da un richiamo che lo coinvolge, a volte fino in fondo. Spazi che offrono momenti di grande bellezza e di piacere, ma anche momenti di delusione e sofferenza. Sempre nuovi “altrove “, dove molti artisti si sono anche persi, attratti, ammaliati da questo magico richiamo.”
 Nel Dicembre del 1998, Balistreri realizza un’installazione dal titolo “Natività Genesi” che è per l’artista…”una riflessione personale sul significato profondo della vita e della morte, sul nascere e il divenire, sul reale e sul mistero. Una riflessione che si colloca volutamente sull’imperscrutabile linea di confine dove tutti gli opposti sono originariamente ed eternamente raccolti”. E questo discorso Balistreri lo svolge dall’interno del suo essere artista e pittore, con colori e forme, sottraendo al loro ineluttabile destino di distruzione, nel momento della loro massima entropia, le pezze e le trine, i colori e le lastre, le reti e le carte che, con gesto creatore, richiama a nuova vita, immerse in uno spazio magico e ricondotte a suprema unità di pura misura. Un gioco di trasparenze ed allusioni che sono sogni e metafore, richiami, riflessioni e proposte frutto di un’indagine scientifica rigorosa e poetica sul senso dell’esistenza.
 Da un decennio si delinea un Balistreri, che dopo lunghi travagli, approda a una visione dell’arte più aderente all’impulso del suo animo libero e poliedrico. Le sue espressioni artistiche diventano una sorta di polifonia di segni e di materiali, ritmati da un agire pittorico immediato per un linguaggio più universale e di più consapevole comprensione, volto all’utilizzo adiuvante dell’opera fotografia e filmica. Nascono così le Arterie, un unicum espressivo fatto di colore e non colore, di stucchi e di metalli, dove Balistreri sperimenta sapientemente differenti forme espressive e materiche avvalendosi financo dell’utilizzo di suoni accattivanti e ritmi ben scanditi come provenienti dal battito incessante del  suo ardire.
 In questo suo ennesimo viaggio ilico tra orizzonti delineati e mari tempestosi, il sentire di Balistreri si sofferma su un’opera tardo gotica, un seducente e coinvolgente spazio senza tempo né luce, senza un apparente profondità che, come una misteriosa bellezza omerica, lo cattura e lo imprigiona, imponendogli una profonda riflessione sulla morte e il suo trionfo sugli uomini. È così che Balistreri viene proteso verso un gioco-forza dove il suo ego, invece di deificare indolentemente il mero processo della prossimità, assurge la quotidianità ad esercizio di pensiero proiettato verso una spietata consapevolezza della dionisiaca caducità umana che, girovagando per i sentieri dell’ignoto, trasforma ogni flebile luce in bagliore.
 Per anni Balistreri si sofferma davanti all’opera del trionfo della morte che lo stimola non solo ad effettuare studi sull’opera stessa ma, a materializzarne i preziosi suggerimenti di evocazione, di pro-vocazione, di ricerca di uno spazio soggetto-oggetto dove l’uomo e l’artista possano edificare la reciproca corrispondenza, installandosi.
 Nel 2007, in occasione di una delle sue ultime proposte artistiche sotto forma di installazione “…e gli dei, invidiosi, guardano e ridono…“, finanziata dall’Assessorato Regionale ai Beni Culturali di Palermo, Balistreri sceglie come sede naturale Palermo con la sua sede della Galleria Regionale della Sicilia a Palazzo Abatellis che ospita nei suoi spazi espositivi l’opera “il trionfo della morte”.
 Così scrivevano sull’opera di Balistreri, la Dott.ssa Giulia Davì, ex Direttore della Galleria Regionale della Sicilia: ”Al di là del suo linguaggio, a tratti brusco, scarno ed essenziale, fatto di applicazioni tecnologiche nell’uso di materiali in parte antichi ed in parte attuali si rivela, infatti, con prepotenza la conoscenza di Balistreri dell’arte quattrocentesca e rinascimentale nella politezza delle forme e nella vigorosità dei volumi, facendo emergere immediati raffronti, ad esempio, tra il corpo sventrato dell’uomo-robot e le sode e pastiche volumetrie dei corpi-guaina di Luca Signorelli”….il Dott. Vincenzo Abbate, ex Direttore della Galleria Regionale della Sicilia: ”Perché nell’opera di Balistreri e nel messaggio nulla affatto casuale di essa la speranza è fortemente adombrata e additata: nella scala che aerea si libra sempre di più su, a scavalcare le pareti del pozzo di tutte le passioni umane che aggrovigliano e rendono l’uomo prigioniero. Una scala che non porta, in un’ottica cristiana, alla visione escatologica della vita ma che tende a privilegiare il percorso della ragione e quindi il momento della riflessione, della pausa, o per meglio dire, del riposo, del quiescere, così come concettualmente inteso nel passato”….il Prof. Piero Longo, critico d’arte: ”Le ruote della storia e delle macchine da guerra, i relitti combusti di animali arcaici, forse costoloni di antiche navi o carcasse di cavalli che alludono al viaggio verso la morte della natura e della civiltà, il tappeto che ribadisce il quadrato della corte del palazzo reintegrandone la forma nelle frattaliche garze intonate cromaticamente al sangue e alle ferite, compendiano il luogo della memoria, baratro e abisso suggerito dal pozzo ormai disseccato che allude alla sterilità e alla distruzione, all’aridità da cui bisogna uscire per ritrovare la vita inerpicandosi attraverso la scala protesa pericolosamente verso il cielo che domina sull’orlo delle cimase come altro immenso quadrato, prigione mutante nell’azzurro che lo connota”.
 Gli ultimi cinque anni della sua vita Balistreri li trascorre, malgrado una grave ed inesorabile malattia, a riflettere, su come tutta l’esperienza umana venga fagocitata con ritmi ossessivi e compulsivi da un consumismo bieco e scagliata come da un dardo impazzito verso una direzione casuale, senza meta e senza una piena coscienza della propria inquietudine che, inesorabilmente, apre nuovi ed inusitati scenari apocalittici. Balistreri, mettendo in scena i suoi stucchi tecnologici, riporta l’anacronismo all’attualità e, avvertendo questo corto circuito temporale come un malessere dell’uomo contemporaneo, dona ai suoi stucchi una sorta di aurea metafisica per sottrarli alla temporaneità. La Venere incinta, una delle sue sculture tecnologiche, è infatti un’opera emblematica perché essa mostra  come l’interno del suo utero non ha nulla più di umano bensì è costituito da circuiti elettronici ed ingranaggi tecnologici capaci di gestire una gravidanza meccanica e artificiale in grado di concepire un nuovo mondo completamente automatizzato con la pericolosa ed inquietante peculiarità di poter riprodurre se stesso.
 Le ultime ore del maestro vengono scandite da un orologio senza lancette, in uno spazio dove la pellicola, a fine corsa, si distacca dalla macchina da presa, in un corpo presente dove la fronte è pietra che coglie semenze e nuvole ingannevoli di un tempo il cui ricordo è sovrano.

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